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Pasto libero? No grazie, qui nessuno è in prigione

È idea comune che in una dieta debba esserci almeno un pasto libero o cheat meal a meno che il professionista non sia uno spietato senza cuore. Secondo me in questa concezione c'è da fare un passo indietro e fermarsi ad analizzare il significato delle parole, troppo spesso non lo facciamo magari perché lo consideriamo un inutile spreco di tempo, invece l'importanza del linguaggio come strumento per modificare la propria percezione è stata ampiamente dimostrata.


Dicevamo, analizziamo la parola (se vogliamo essere precisi due parole) "pasto libero": se un pasto è libero gli altri saranno necessariamente in gabbia, altrimenti perché mai dovremmo specificarlo? L'idea che in un'alimentazione bilanciata i pasti siano "in gabbia" ovvero tristi, monotoni, più un dovere che un piacere è tristemente radicata e sicuramente non porta ad esiti positivi. Quest'idea va anche a braccetto con l'altrettanto radicata idea che "la dieta" abbia un inizio e una fine, che sia un menù da seguire per un tot di mesi. Qui di nuovo casca l'asino sul fatto che non diamo il giusto peso alle parole: ognuno di noi è "a dieta" dal giorno in cui viene al mondo fino al giorno in cui lascerà questo mondo. Sono pazza? No, semplicemente "dieta" vuol dire "stile di vita" e tutti hanno uno stile di vita, corretto o meno che sia.


Analizziamo anche cheat che in italiano è "sgarro" o "tradimento", la percepite l'aura di negatività che emanano quelle due parole? Non vi sentite già in colpa all'idea di fare "uno sgarro"? È infatti emblematico come cercando su google pasto libero o cheat meal tra le più frequenti associazioni vi siano delle richieste su cosa mangiare (ma non doveva essere libero?), su come "contenere i danni" o su tremendi sensi di colpa dopo "esserselo concesso".



Sui sensi di colpa legati al cibo sono stati fatti centinaia di studi pubblicati su riviste scientifiche (n.d.a. le "riviste" scientifiche non sono quelle che si trovano in edicola, esistono specifiche banche dati in lingua inglese dove trovarle). Cosa ci raccontano questi studi? Per non essere di parte inizio dicendovi che il senso di colpa può anche avere una valenza positiva di sprono ma, arriva l'enorme ma, l'altro lato della medaglia ha un'ombra talmente scura da spegnere questo briciolo di luce: sensazione di incapacità, perdita di controllo, diminuzione dell'autostima e dell'autoefficacia, maggiore tendenza all'emotional eating (la "fame nervosa"), influenza negativa sulla qualità di vita.


Piccola parentesi sull'autoefficacia: l'autoefficacia è la fiducia di un individuo nelle proprie capacità di poter attuare un comportamento. Non è un sinonimo di abilità, non dipende da successi o insuccessi ma dal modo in cui si pensano!

Il senso di colpa non è solo una sensazione sgradevole di per sé ma può essere fortemente controproducente al fine di un miglioramento dello stile di vita e anche ad un'eventuale perdita di peso.


Le imposizioni rigide sono strettamente correlate al fenomeno del craving, ovvero il desiderio irrefrenabile proprio di quei cibi che ci siamo imposti (o ci è stato imposto) di non mangiare. Non c'è da stupirsi, d'altronde se io ora vi dicessi "non pensare ad un cavallo bianco", voi a cosa stareste pensando? Questo è noto in ambito psicologico come effetto paradossale della soppressione dei pensieri.


Da ripetersi come un mantra: la salute non è un numero sulla bilancia. Il peso è solo uno degli innumerevoli indicatori di salute (anche impreciso) e non va mai dimenticata l'importanza della salute mentale per la salute globale. L'alimentazione non deve diventare fattore di stress o un pensiero fisso, quando mangiamo una pizza, un gelato,... dovremmo focalizzarci sul gusto e sul momento di piacere non essere assaliti dal senso di colpa perché "non avrei dovuto mangiarlo". Una sana alimentazione punta alla salute e non può quindi contemplare regole rigide bensì una fisiologica flessibilità.


Lo stress per di più aumenta la produzione del cortisolo, un ormone che stimola il senso di fame, quindi è un autogol su tutti i fronti anche su quello biochimico.


Inoltre l'idea di avere un solo pasto/giorno libero non ci porta a gustarcelo pienamente al di là del senso di colpa. Il nostro cervello entra in modalità "ultima cena" = o ora o mai più e questo con buona probabilità ci porta ad esagerare nelle porzioni, a mangiare con voracità senza soffermarci a gustare quel piatto rendendoci conto che forse ci avrebbe soddisfatto anche una porzione minore.


Gli studi hanno notato come le persone che vedono il cibo come fonte di gioia e convivialità abbiano dei livelli di qualità di vita notevolmente superiori a chi lo vede come contenitore di calorie e macronutrienti.


Quindi in conclusione cosa ci portiamo a casa? L'importanza di modificare il nostro linguaggio ma anche la nostra mentalità: hai mai pensato se la pizza ogni sabato ti va davvero o se ormai è solo abitudine? E se la mangiassi di mercoledì cosa accadrebbe? Mi renderebbe molto felice se la prossima volta che vi verrà automatico chiamare la pizza "sgarro" tornaste sui vostri passi chiamandola semplicemente "pizza", penso che anche lei sarà molto più felice di essere mangiata ♡


Non avere il "pasto libero" non significa non poter mai mangiare alimenti energeticamente densi ma nutrizionalmente poveri (per i concetti di densità energetica e nutrizionale vi rimando alle mie storie in evidenza sul profilo Instagram @im.dietally), significa rompere quelle catene con cui ci siamo auto-incatenati perché la diet culture ci ha sempre detto che era giusto così, significa imparare che anche gli alimenti più semplici possono darci gioia perché il cibo ha combinazioni infinite che aspettano solo di essere scoperte, mi raccomando non aspettate il weekend per essere felici di ciò che mangiate!






Bibliografia:

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  • "The effects of guilt and sadness on sugar consumption" di Sarah Lefebvre et al., Journal of Business Research 2019, 100, 130-138, https://doi.org/10.1016/j.jbusres.2019.03.023

  • "The psychology of food craving" di Andrew J. Hill, Proceedings of the Nutrition Society 2007, 66, 277-285, 10.1017/S0029665107005502

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